martedì 8 ottobre 2013

II CONGRESSO NAZIONALE DI SEL - DOCUMENTO DI VENDOLA

la strada giusta
documento per il Congresso 2014
bozza
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mondo
politica
sinistra
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C’è la bellezza e ci sono gli umiliati.
Quali che siano le difficoltà dell’impresa, vorrei non essere mai infedele né all’una né agli altri.
Albert Camus
Laddove c’è il pericolo, cresce anche ciò che salva
Friedrich Hölderlin
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“Laddove c’è il pericolo, cresce anche ciò che salva”. Il pericolo incombe sempre
più sulle nostre vite, in ogni latitudine del pianeta. E nessuno, sia esso individuo o
comunità, nazione o continente, ne è escluso. Se la crisi, ogni crisi, attraversa la storia
di persone e popoli mostrando ad un certo punto del suo cammino la carta delle
opportunità che apre sbocchi, dischiude vie d’uscita, questa lunga crisi globale che
sempre di più si avvita su sé stessa continua viceversa ad accrescere il pericolo. Lo
incontriamo ogni volta che il nostro sguardo si espande oltre il cono d’ombra della
cronaca quotidiana e proviamo a leggere, con la fatica e il dolore che sempre il
conoscere richiede, la trama più profonda della fase che stiamo attraversando.
Il nodo che avviluppa il mondo e lo tiene sospeso continua ad essere quello che si
intreccia tra pace e guerra. E di fronte ai lampi di un nuovo conflitto armato, in Siria
come in tutto il Medio Oriente, le parole di verità, cariche di valore universale, ancora
una volta non provengono dai governi né da una politica che scivola indietro verso un
pragmatismo senza respiro. Giungono piuttosto da un uomo che si affaccia da un
balcone per dire al mondo che la guerra non risolve nessuno dei problemi aperti, ma
serve unicamente per vendere armi del commercio illegale. Quelle parole risuonano a
partire da un paese, il nostro, che negli ultimi dieci anni è stato il maggiore fornitore di
armi al siriano Assad. E’ il Papa a dirci, da Lampedusa o da quel balcone, che è questo
il tempo di forgiare il vocabolario del futuro per rovesciare i segni del potere e dare al
mondo contemporaneo che ancora non la possiede quella cultura della pace che è
fondamento di ogni altra possibile cultura umana.
La guerra diviene sempre di più il conflitto entro cui si misura il controllo delle risorse
naturali, a partire da quelle energetiche, in uno scenario dove i cambiamenti climatici
sconvolgono natura, economie, flussi di migrazioni planetarie. Quel che la guerra porta
con sé, in Siria come in Afghanistan, l’eco perdurante delle piazze in rivolta per il pane
e la libertà nel Maghreb, deve spingere la sinistra verso una profonda revisione delle
proprie categorie interpretative dei mutamenti in corso, delle narrazioni e del modo
stesso di accostarsi alle questioni globali. Occorre avere uno sguardo cosmopolita e
saperlo connettere con il nostro agire in ogni dimensione locale esso si compia. C’è un
salto culturale e politico che, proprio mentre ci troviamo nel mezzo di impetuosi
mutamenti che alimentano la recrudescenza di fenomeni identitari e xenofobi in tutta
Europa, non è più rinviabile per una sinistra cosmopolita che si proponga di
interpretare e governare la portata delle trasformazioni epocali in corso. Ci stiamo
faticosamente lasciando dietro di noi un trentennio di illusoria e illimitata fiducia nel
mito della crescita indistinta, della liberalizzazione selvaggia e spregiudicata dei
mercati, del miraggio del profitto immediato capace di sedurre quasi allo stesso modo
destra e sinistra di mezzo mondo. Ma sappiamo davvero verso dove stiamo andando?
Il cosiddetto Washington Consensus, il modello che Fondo Monetario Internazionale e
Banca Mondiale hanno imposto ad interi continenti, dall’America Latina all’Asia e
all’Africa, doveva coniugare la liberalizzazione degli scambi commerciali e la
privatizzazione di gran parte dell’economia pubblica con efficienza e benessere. Il
bilancio oggi è: niente di tutto questo è accaduto. Erano illusioni, erano menzogne,
sono diventati ben presto inganni. Niente di tutto questo, ma povertà, crescita
esponenziale delle diseguaglianze ed esclusione sociale, insieme a devastazione delle
risorse naturali e dell’ambiente. Niente di tutto quello che la cultura liberista ha
promesso al mondo con il suo suadente armamentario di retorica e di persuasione si è
verificato, se la repentina sostituzione dell’economia reale con quella finanziaria delle
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transazioni speculative e dei derivati è giunta al punto di piegare le nostre vite
riducendo via via i diritti fondamentali della persona. Il diritto al sapere, al vivere in
salute, il diritto alla casa e al lavoro degno, all’aria e all’acqua pulita.
La crisi globale rende oggi del tutto attuale una categoria cara al pensiero di Gramsci e
ripresa con efficacia da diversi studiosi contemporanei. Una categoria che ci offre una
lettura critica della fase che stiamo vivendo. Siamo nell’epicentro di un inter-regnum,
uno di quei crocevia della storia nel quale sappiamo quel che lasciamo ma non
abbiamo ancora chiaro dove andiamo noi, dove va il mondo che abitiamo e su quale
architrave si reggerà già domani. Sappiamo che il mondo dal quale veniamo è nel
colmo di una crisi determinata dai mutamenti climatici, dalla perdita progressiva della
biodiversità, dal depauperamento della fauna marina, dall’avvelenamento delle acque
in ogni parte del pianeta. Ed è proprio la specificità della crisi ecologica a delineare
uno scenario di deterioramento inarrestabile dei beni pubblici globali, dei beni comuni
che rappresentano l’essenza stessa della sopravvivenza umana. Ci stiamo lasciando
dietro un mondo che dopo la fine della guerra fredda e la caduta dei muri pareva ebbro
di fiducia nella virtù salvifica del mercato, un mondo orientato e guidato dall’unica
superpotenza rimasta in quel momento sul campo, quella statunitense. Ed invece ci
appare un mondo nel quale presto si infrangono equilibri e irrompono nuovi
protagonisti economici e politici. I paesi del gruppo dei BRICS e poi la Turchia, il Qatar,
ormai attori di rilievo nel delicatissimo scacchiere mediorientale. Un mondo, ancora, nel
quale la funzione predominante degli Stati Uniti perde di peso, tra promesse mancate e
sguardi rivolti altrove, verso quell’area del Pacifico dove vi sono opportunità
commerciali e grassi mercati da presidiare, insieme ai soliti interessi geostrategici da
tutelare.
Lo stesso uso di categorie di volta in volta differenti che gli osservatori e gli analisti di
politica internazionale adoperano, prima il G8 e poi il G20 e ora il G-0, ci parlano della
multipolarità di un mondo entro il quale i vecchi schemi che determinavano le relazioni
tra i popoli e i paesi perdono ogni giorno di valore e non assicurano alcun governo dei
processi globali. Non vale più un Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite stretto nelle
maglie del diritto di veto delle cinque superpotenze; non vale l’Organizzazione Mondiale
del Commercio; neppure riesce a valere l’Europa se arriva all’appuntamento della crisi
globale priva di istituzioni politiche unitarie ed efficaci. Un mondo, infine, che proprio
nella cesura di diseguaglianze, ingiustizie sociali e povertà aperta dalla crisi economica,
vede crescere i germi dell’integralismo e del fondamentalismo, politico e religioso,
del terrorismo, delle reti criminali transnazionali, del commercio illegale degli
armamenti.
Dalla crisi sono riemersi a poco a poco e poi impetuosamente antichi odi, furori razziali,
etnici, religiosi che parevano sopiti. E si sono intrecciati alle smaglianti e vacue forme
della modernità, componendo una mistura pronta qua e là a divampare in qualunque
momento. Nazionalismi, integralismi si combinano, si alimentano e si combattono tra di
loro, sospinti da forme di fanatismo integralista suscitate o indotte, comunque legate
con il doppio filo alla violenza culturicida che proviene dall’occidentalizzazione del
pianeta.
Il pericolo è sempre e ancora la guerra. E questo è davvero un pericolo globale e
permanente. L’idea di guerra globale permanente si è affermata già all’indomani dell’
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11 settembre, quasi fosse da lì in poi proprio e solo la guerra il metro di misura e
l’elemento dirimente di ogni controversia della politica mondiale. Alla giustificazione
della lotta al terrorismo e dunque all’intervento militare unilaterale con il suo bilancio
fallimentare in Iraq, in Afghanistan e più di recente in Libia, è stato sostituito il
principio di ingerenza umanitaria, già coniato nella guerra dei Balcani. Ma proprio gli
eventi della Libia, come dell’Iraq e dell’Afghanistan, dei Grandi Laghi e del Sahel ci
dimostrano che non è invece possibile costruire nessuno spazio pubblico di pace e di
coabitazione senza il protagonismo diretto delle persone. Il grido di liberazione
che viene da Tahir o da Taksim Square, da Tunisi e dal Bahrein, dalle piazze greche
come da quelle bulgare ed ungheresi è proprio questo che ci dice. Le stesse
contraddizioni che stanno segnando le differenti esperienze di socialismo di questo
inizio di secolo in America Latina marcano una continua tensione tra l’urgenza di
ripagare un debito sociale accumulato nei decenni passati verso le popolazioni più
diseredate ed il rischio di accrescere un nuovo debito pesante, quello ecologico, per le
generazioni future. In questa contraddizione si dibatte il Brasile con le sue immense
risorse naturali e la determinazione con cui quell’inedita esperienza politica cerca di
condurre fuori dalla morsa della povertà, della malattia, della fame e dell’esclusione
sociale milioni di donne e uomini di quel paese. Può apparire un nodo inestricabile e
rischia in effetti di esserlo qualora quelle ed altre esperienze politiche del continente
latinoamericano prescindessero, nella loro azione di governo, dal rispetto della Madre
Terra, dal riconoscimento del debito ecologico, dai diritti delle prossime generazioni
come cardine di ogni attività economica e produttiva capace di segnare le politiche
commerciali e di investimenti.
Chi può restare indietro, essere messa ai margini o persino decomporsi è invece
l’Europa. Il suo primo problema si chiama democrazia. Il rischio che seriamente
corre è quello di autocondannarsi a “diventare una delle tante periferie del mondo”. Si
è posta di fronte alla crisi globale elevando gli interessi della finanza all’apice della
propria politica, snaturando nelle politiche del lavoro e nella qualità e tenuta del
welfare quel modello sociale europeo attorno al quale avrebbe dovuto costruire la
risposta alla crisi stessa. Ma la miopia e l’avidità delle sue classi dirigenti sono giunte
sino al punto di usare la crisi per ridisegnare l’intero modello di integrazione del
Continente, coltivando sin dall’inizio il proposito di scalzare la Grecia dall’Unione, come
se solo si potesse immaginare un’idea di Europa senza Atene. Un intero popolo
considerato laboratorio e cavia dell’esperimento di una miscela esplosiva e velenosa,
l’austerità, con cui istituzioni che si proclamano europee mandano in frantumi un Paese
che oggi diviene lo specchio della nostra falsa coscienza di fronte alla crisi. Una classe
dirigente che non si è posta né la preoccupazione né l’opportunità rappresentata dalla
propria frontiera, quando invece avrebbe dovuto schierare proprio lì, da Tirana a
Istanbul, i migliori tra i suoi mediatori culturali per vincere la sfida aperta sul terreno
della cooperazione, dell’integrazione e dell’interazione. Ha risposto al
fondamentalismo dell’altro, particolarmente quello islamico, con il proprio
fondamentalismo occidentale, finendo per rinfocolare dentro sé stessa regressioni
democratiche come in Ungheria, populismi xenofobi che lambiscono paesi di solida
tradizione democratica e tolleranza culturale come quelli scandinavi, mentre la stessa
l’Inghilterra ripensa al suo vecchio ruolo di potenza globale e solitaria, distante
dall’Unione. Ognuno di questi problemi aperti, certo diversi tra loro, ha però in comune
con gli altri l’identica chiave. La caduta di credibilità dell’Europa e delle sue istituzioni,
la mancanza di fiducia delle sue popolazioni verso chi guida i processi in corso sono
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fattori che stanno alimentando il virus dell’antieuropeismo. Ecco il pericolo,
l’involuzione che la può dissolvere.
L’antidoto può e deve venire da una metamorfosi politica dell’Europa. Non solo
omologazione, ma riconoscimento e valorizzazione di quelle differenze che oggi la
percorrono, come hanno percorso l’intero arco della sua storia moderna. Non solo
deliberazioni imposte da maggioranze dominanti, ma rispetto e pari dignità di quella
complessità etnica, culturale, religiosa, linguistica che è in definitiva la sua principale
risorsa. Ma la carta del suo futuro l’Europa può giocarla sul terreno di un New Deal
sociale, economico, democratico. Soprattutto ecologico. Se oggi rischia di venire
messa alle corde è perché attraversa la crisi adottando modelli competitivi, sul piano
economico e sociale e dei diritti, estranei alla propria storia e alla propria civiltà.
L’Europa può ripartire rielaborando il suo modello sociale e civile storicamente fondato
sul nuovo welfare, dunque sull’estensione della qualità della vita individuale e
comunitaria, sulla coesione sociale e su una politica fiscale comune, sulla formazione di
una nuova ed inclusiva cittadinanza europea. Sui quei valori di solidarietà e di
cooperazione che hanno permesso ad un intero Continente calpestato e diviso da due
guerre mondiali di riprendere nelle proprie mani le chiavi del progresso.
Per questa nuova Europa il Mediterraneo è una carta verso il futuro. Se l’Europa
saprà rinunciare al suo centralismo occidentale, se saprà riconoscere differenze e
ricchezze delle culture umane e assumere pienamente il principio associativo e
cooperativo come leva della propria nuova politica, incontrerà nel Mediterraneo la
sponda della sua stessa rinascita. Perché il Mediterraneo, aspro terreno oggi dei
maggiori conflitti sociali, di etnia e di religione, è forse il punto dove più di ogni altro
luogo al mondo si compie quella mescolanza di civiltà che l’umanità abbia mai
prodotto. Una politica comune mediterranea fondata sulla cooperazione
internazionale di quell’intera area potrà dare all’Europa quella forza che oggi non ha
per vincere le sfide del suo futuro. Da un nuovo paradigma energetico capace di
lasciarsi definitivamente alle spalle il controllo esclusivo delle fonti d’energia per una
loro condivisione attraverso reti di scambi multipolari, al rapporto tra Nord e Sud del
mondo che colloca il Mediterraneo ad essere il centro dell’Europa. E’ il Mediterraneo
l’area culturale e lo spazio politico che può mutare la svantaggiosa e perdente
opposizione tra Nord e Sud del mondo. Un’opposizione che tiene inchiodato il pianeta
in una divisione che concentra da una parte, nel Nord, tecnica ed economia con cui
sottomettere l’altra parte, il Sud, ad un destino di arretratezza, sottosviluppo,
dipendenza.
Ridare centralità alla dignità di donne e uomini, ai diritti degli umani e dei viventi in
armonia con la biosfera, al protagonismo di persone e popoli verso la propria
autodeterminazione al di là di ogni appartenenza religiosa o etnica o culturale vuol dire
orientare il mondo verso un futuro di pace.
Se questo è lo sguardo che la sinistra ha sul mondo, allora essa deve porre in rapida
discussione le antiche categorie di geopolitica, di stato-nazione, di relazioni di potenza,
di interesse nazionale e di Realpolitik. Retaggi di un vocabolario che è appartenuto al
lungo periodo di guerra fredda e di una vecchia politica internazionale oggi incapace di
leggere e poi di governare i mutamenti per uscire dall’ inter-regnum scegliendo una
diversa strada. Che è poi la strada dove la costruzione di una politica mondiale della
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pace ci parla delle pratiche di nonviolenza, della prevenzione diplomatica, della
gestione politica e cooperativa dei conflitti, della messa al bando di armi di distruzioni
di massa, del disarmo nucleare, della riduzione massima delle spese militari. Le
coordinate fondamentali del governo del mondo vanno ridisegnate a partire anche
dalle sue principali istituzioni. L’azione dell’ONU risulterà più efficace sullo scenario
della stabilità e della sicurezza internazionale se il suo Consiglio di Sicurezza potrà agire
senza veti ed essere aperto alle rappresentanze d’area regionale. L’Organizzazione
Mondiale del Commercio, il WTO, agisce sulla scena dello scambio globale in una
logica neoliberista e di promozione della globalizzazione delle corporations,
restringendo lo spazio del governi e diffondendo iniquamente massicci sussidi agricoli
al solo Nord del mondo. Le clausole che garantiscono i brevetti delle multinazionali su
invenzioni che possono salvare vite umane, ridurre le emissioni di gas a effetto serra,
affrontare l’emergenza climatica affermano in sé qualcosa di paradossale: il diritto di
proprietà intellettuale volto al profitto precede ed esclude quello sulla natura e
sull’umanità. La necessità e l’importanza del commercio è così vitale oggi che esso va
sottratto ad ogni logica di puro sfruttamento, dei soggetti e della natura. I diritti umani,
quelli del lavoro, i diritti dei nativi e quella della Madre Terra: ecco ciò che deve
presiedere alle norme del commercio se si vuole preservare la vita.
Pace e guerra, le due sponde entro cui oscilla pericolosamente questa crisi infinita. E’
un nodo che oggi torna sulla scena dove si compiono le nostre vite come la questione
rivelatrice, più di ogni altra, del distorto modello di sviluppo imposto all’intero
pianeta dai vincitori della partita cominciata ormai trent’anni fa, il tempo di una
generazione umana. Due giganteschi processi si sono contemporaneamente intrecciati
a partire da allora. L’ascesa, e poi il trionfo, di questa inedita forma di un capitalismo
che ha saputo farsi mondo portando la sua logica di mercato in ogni angolo di
terra, invadendo persino le sfere più intime della formazione delle identità; e la crisi
che ha condotto al crollo di un socialismo rivelatosi incapace di far crescere
insieme libertà e giustizia sociale. Oggi la tessitura di quella trama appare
compiuta e la crisi in cui siamo, la più lunga e sconvolgente, sradicante, dell’intera
storia moderna, è lo specchio che ne rifrange l’epilogo. Non solo possiamo leggerla con
la lente del nostro pensiero critico, ma prima ancora amaramente la misuriamo a
partire dal carico delle diseguaglianze che accresce giorno dopo giorno e delle
povertà che produce disegnando i contorni netti e invalicabili di un pianeta diviso in
due dall’abisso che separa il regno dell’opulenza e dello spreco dal mondo vasto e
crescente dei dannati, degli umiliati, vecchi e nuovi che siano.
Siamo tutti di fronte ad una sconfitta, e la sinistra, noi, portiamo il peso di una
responsabilità collettiva della quale dobbiamo farci carico se la nostra sfida passa,
come vogliamo che sia, dalla costruzione nuova dell’egemonia perduta. Il
capitalismo che ha saputo farsi mondo ha vinto su entrambi i fronti. Quello delle
trasformazioni strutturali, elevando economia e finanza a dominio incontrastato di
una politica sottomessa fino ad essere esclusa dal gioco, immiserita. E ha
vinto, insieme, nella capacità di edificare un immenso e diversificato apparato
ideologico proprio mentre la sua cultura di riferimento – il liberismo – sventolava al
mondo le bandiere del tramonto delle ideologie e con esse persino della fine stessa
della storia. Il liberismo ha compiuto una formidabile innovazione conservatrice e
insieme un grande inganno delle coscienze. Che ha saputo tuttavia, o forse proprio in
virtù di questo, produrre un senso comune intellettuale di massa, un modo diffuso di
sentire la vita, la vita reale di ciascuno, improntato al pensiero unico. Lo ritroviamo
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dapprima in qualche cattedra universitaria statunitense di economia e di diritto e ben
presto lo vediamo occupare la scena della produzione culturale di massa e mediatica
che lo diffonde con un contagio accattivante nei diversi angoli del mondo, sradicando
culture e differenze, omologandole all’unico punto di vista divenuto possibile, quello del
suo credo. Qualcosa che cattura entro di sé ogni possibile diverso orizzonte
esistenziale. Non c’è via di scampo che non sia quella - ecco un altro pericolo della
lunga crisi in corso - di vivere il proprio tempo mai come scelta o come determinazione,
neppure come possibilità o tentativo, ma unicamente come destino, preassegnato in
origine a ciascuno e a tutti. Questo ci dice l’ideologia dei vincitori. E destino, destino di
questa nostra modernità senza qualità, del primato vacuo ed illusorio dell’uomo
economico e tecnologico che sfida i processi naturali, gli equilibri terrestri, e perde,
perde per l’oggi e per i secoli a venire, non è forse anche Fukushima, com’era stato
anni prima Chernobyl, senza che ne imparassimo alla radice la lezione? Non siamo né
forse mai saremo in grado di “misurare” il danno umano di queste due catastrofi, fino a
che punto di profondità le sue tracce velenose si imprimeranno nel succedersi delle
generazioni future. Ecco come le parole tornano. Catastrofe. “O l’umanità cambia il suo
modo di pensare o l’esito sarà la catastrofe” aveva detto Albert Einstein dopo
Hiroshima. Siamo di nuovo lì, riprecipitati dentro quel punto di massimo pericolo.
“Il mondo è fuori squadra – dice Amleto -: che maledetta noia essere nati per
rimetterlo in sesto”. Lo dice guardando alle vacillanti certezze del suo tempo, il tempo
della scoperta di nuove terre e delle rivolte religiose, delle rivoluzioni della scienza e
delle regole che smettono all’improvviso di valere, capovolgendo ogni antico ordine di
un mondo in cerca di nuove architravi su cui reggersi. E’ quello il tempo in cui l’intera
vita si divide e con essa la coscienza spaesata di donne e uomini. Come Amleto ci tocca
la passione di pensare. Diversamente da lui sentiamo il bisogno di agire. La politica è
per noi la strada.
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Dove cresce il pericolo, c’è anche ciò che ci salva. E quel che ci salva, quel che può
dare forma al mondo fuori sesto, altro non potrà essere che la politica. Certo, la
sua crisi viene da lontano e non è mai stata come ora così profonda, mai così distante
il suo agire da quello della vita reale della persona. Crisi di legittimità, di credibilità, di
moralità. Delle categorie che la definiscono, dei comportamenti di chi più la interpreta,
dei linguaggi e delle parole della sua scaduta grammatica, dunque di senso. Possiamo
dire oggi quel che seppe vedere in maniera profetica una grande pensatrice del secolo
scorso: “Prendiamo tutti i termini, tutte le espressioni del nostro vocabolario politico, e
apriamoli: al loro interno troveremo il vuoto”.
Occorre andare alla radice di questa lunga e profonda crisi della politica che l’ha
portata sino al punto d’essere oggi per tanta parte di donne e uomini niente più che
una passione triste, incapace ormai di produrre pensiero e cambiamento del mondo e
valori che danno senso alla vita. Eppure c’è stato il tempo nel quale una grande politica
ha interpretato il mondo misurandosi con il suo destino e legandolo con il filo di seta
delle possibilità e delle speranze a quello di milioni e milioni di donne, di uomini, delle
generazioni più giovani aperte al bisogno di futuro. E’ accaduto particolarmente qui, in
Europa e in Italia, quando posta nel punto di equilibrio tra libertà ed eguaglianza in
quel felice appuntamento della storia entro cui si è compiuta la costruzione dello stato
sociale – lo snodo più alto della civiltà democratica europea - la politica ha saputo
mettere in campo una ricerca di senso e un’idea di società, un comune principio di
speranza umana. C’è stata una grande politica che pur attraverso errori e torti non
aveva paura del mondo e lo abitava con lo scopo di trasformarlo. Quella politica ha
abitato insieme il pensiero e le culture, se ne è nutrita, ha praticato l’esercizio
complesso della democrazia, la contaminazione reciproca con la società civile e i suoi
fermenti e movimenti. Se pensiamo all’Europa, e all’Italia con le sue peculiarità ed
anomalie, in quel punto d’equilibrio dove capitalismo e democrazia si sono incontrati e
stretti in un reciproco compromesso, lì c’è stata, a sancire quel patto con il proposito di
governarlo, la grande politica. E’ stato il tempo di una stagione, ma così intensa, così
produttrice di politica da far intravedere la possibilità che il lavoro finalmente avesse a
che fare con la dignità di donne e uomini e che il diritto sociale, civile, di
cittadinanza potesse riempire di nuove libertà la vita delle persone.
A rompere quell’equilibrio giunge per primo il mercato. La sua pervasività, le sue
logiche esclusive di consumo, di puro profitto e di scambio sempre ineguale non fanno
che torcere dalla propria parte qualsiasi processo di globalizzazione, finiscono per
piegare ogni rapporto umano al mito dell’accumulo e a ritorno, ottocentesco, del lavoro
sempre più sfruttato al punto di fare della vita sociale di ciascuno, e dei giovani per
primi, uno spurio frammento di precarietà ogni giorno sospesa. E’ da quel momento
che in luogo della grande politica ormai estromessa dalla scena, prima dall’economia e
poi alla finanza, insorgono le politiche. Non è un allargamento, è un ripiegamento. La
politica da lì in poi diventa piccola. Il suo è ormai un guardare il mondo, che sempre
più si allontana ruotando fuori sesto, dal sottoscala del pragmatismo di giornata della
pura amministrazione dell’esistente, della proceduta tecnica come suo unico orizzonte,
dei programmi scritti a quattro mani in una stanza di palazzo, mentre fuori ribolle un
magma incandescente di cose nuove. Con la sua lunga la scia di detriti dove paure,
solitudini, rancori e rassegnazioni si accumulano ai lati delle strade che quel mercato
senza più regole apre davanti alla sua corsa, in ognuno dei punti cardinali del pianeta.
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Questa politica ben presto perde tutto. Forme, simboli, pratiche, agire, idee,
partecipazione, rappresentanza, storia, memoria. Perde soprattutto le parole attraverso
cui nominare, cioè interpretare e capire, il mondo che sta mutando. Sembra ormai
diventata un guscio vuoto. Il suo lessico grigio diviene un gergo da urlare a chi,
sempre più stancamente, segue i suoi nuovi ristretti sentieri. Accumula sconfitte senza
mai che le sue classi dirigenti, ora diventati ceti politici, rendano veramente conto e
passino la mano. I luoghi pubblici delle istituzioni democratiche diventano serbatoi di
puro consenso elettorale dei partiti che le occupano guardando verso la direzione
degli interessi forti, colludendo con quelli illegali e producendo gruppi di pressione,
cordate interne, ogni giorno di più rinchiuse nei palazzi di un qualsiasi potere da
occupare e presidiare. E’ un mutamento che non riguarda questo o quel paese
soltanto. C’è un comune denominatore che traccia un medesimo segno negativo in
tutto l’Occidente, se è vero che mano a mano che le decisioni sul mondo traslocano
verso la finanza e verso i mercati si svuotano sovranità e democrazia di stati nazionali e
di organismi internazionali. E’ la democrazia partecipativa che in Occidente, qui
dove è stata inventata e a lungo praticata, indebolisce la sua carica di rappresentanza.
A partire dall’esercizio primario che la fonda, la partecipazione al voto dei suoi cittadini.
Negli Stati Uniti, in diversi paesi dell’Europa, tanti snodi decisivi della vicenda politica
marcano il distacco crescente dell’opinione pubblica verso la scelta dei propri
rappresentanti e quel che era adesione, partecipazione, comunità democratica si
tramuta in consenso passivo, astensione, fuga. Ma date a finanza e mercato le
responsabilità che la vicenda della crisi assegna loro, è un fatto che pesa come una
colpa la rinuncia della politica, delle sue classi dirigenti, a contrastare quelle
responsabilità con un’idea di sé stessa come progetto di società, come strumento di
trasformazione.
Le politiche cosiddette di austerità ne sono una prova. Dal Six-pack al Fiscal Compact
l’imperativo del pareggio di bilancio e delle politiche di austerità sembrano essere
l’unica dimensione possibile per questa Europa “rigorista” a scapito delle politiche
espansive ed anticicliche in grado di rilanciare l’occupazione, sostenere un green new
deal e attraverso politiche fiscali condivise e nuovi strumenti come la Tobin tax
giungere a finanziare misure di welfare quale il reddito minimo garantito.
L’estensione delle forme di lavoro precario richiede, insieme alla lotta per contrastarlo
alla radice, l’adozione del reddito minimo garantito come forma che dia continuità di
reddito e opportunità di formazione e autodeterminazione ai giovani, sottraendoli ad
una dipendenza generazionale che umilia ogni loro progetto di vita. Quelle politiche
imposte dalla finanza e adottate prontamente dai governi di mezzo mondo infatti,
presentate come inevitabili dagli stessi ambienti economici e finanziari che non
avevano né previsto né contrastato la crisi, hanno portato al massimo grado di
apertura la forbice tra povertà e ricchezza. Questo è avvenuto nel cuore dell’Europa e
da noi, in Italia dove più che altrove sono state presentate come farmacopea e terapia
“naturale” pronta a guarirci dalla crisi. Sono state, viceversa, l’occasione per riaprire
quella partita del Novecento segnata, come abbiamo visto, dal compromesso tra
capitalismo e welfare democratico. Su quel modello di welfare le politiche di austerità
hanno puntato dritto considerandolo un boccone da spostare e poi da spartire sul
mercato. Il taglio indiscriminato della spesa pubblica, il trasferimento di parte
consistente del reddito delle famiglie a favore di banche e imprese, il
ridimensionamento del welfare, il forte aumento della disoccupazione e il conseguente
peggioramento dei salari, hanno accresciuto diseguaglianze di cui soltanto riusciamo a
misurare l’unico dato quantitativo ma non la portata esistenziale per ciascuno di noi di
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ciò che con quelle politiche è andato e andrà nel tempo perduto, quei valori
immateriali che mai nessun PIL riuscirà a indicare. Le politiche di austerità si sono
esercitate, con perizia “tecnica” come quella applicata dal governo di Mario Monti, a
ridurre le tutele esattamente nel momento in cui le persone esposte al marasma della
crisi più ne avevano bisogno. Ecco un valore immateriale che le politiche di austerità
hanno ingigantito: la mancanza di senso del futuro di chi le ha subite, la paura
delle famiglie, dei giovani come degli anziani, delle persone sole alle prese di come
materialmente vivere domani, il giorno dopo.
Queste politiche hanno anche per questo messo in luce la peggior classe dirigente che
l’Europa abbia espresso, già nel fatto di aver svalutato un termine – austerità –
adoperato in passato da altre figure della politica europea senza alcun intento
monetarista ma come idea di giustizia sociale e di sostenibilità. Olof Palme intendeva
le politiche di austerità come mezzo per cambiare i rapporti ineguali tra Nord e Sud del
mondo; Willy Brandt come una politica capace di aprire la strada non più del conflitto
ma della cooperazione tra i paesi in via di sviluppo; Enrico Berlinguer come critica
alla società opulenta, e Gro Harlem Brundtland pensava all’austerità a partire da un
concetto – lo sviluppo sostenibile – che definisce “lo sviluppo” come “ciò che
soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle
generazioni future di soddisfare i propri”. Le politiche di austerità imposte e
subite in questi anni non sono però soltanto inique. Esse rendono del tutto evidente
come la loro presunta oggettività economica, smentita dai fatti reali, sia stata applicata
in modi diversi a seconda dei diversi paesi. Negli Stati Uniti dove la crisi ha avuto
inizio e dove il deficit delle banche è ben più elevato che in tutta la zona dell’euro non
c’è stata alcuna politica di austerità paragonabile a quella europea. L’accordo che
impedisce alla potenza americana di cadere nel baratro fiscale (il fiscal cliff ) contrasta
la recessione elevando le tasse sulle rendite finanziarie e sui dividendi,
toccando i ceti più ricchi e risparmiando la classe media. Provvedimenti che vengono
approvati dai mercati finanziari del mondo, gli stessi mercati che impongono,
servendosi di agenzie di rating del tutto compiacenti, la strada inversa da noi. Quelle
politiche si scaricano tutte verso l’Europa e ciò segnerà il suo arretramento sul piano
economico negli anni avvenire. In Italia l’austerità ha avuto, proprio in uno del
passaggi più drammatici della sua storia sociale, soprattutto il volto di Mario Monti e
del suo governo tecnico. Ricette economiche presentate come bene patriottico e
interesse nazionale, sbandierate come scelte tecniche obbligate e politicamente neutre
dei problemi esistenti sul tappeto. Scelte contrabbandate come indispensabili dentro
quella perpetua emergenza tesa ad accreditare la crisi come una condizione
permanente, senza che mai sia data la possibilità di risalire alle cause e alle colpe. Esse
hanno determinato decisioni sul mercato del lavoro, sulla politica fiscale, sulla
distribuzione delle risorse e della ricchezza del paese, senza che questo al
contempo ci abbia fatto fare un solo passo in avanti per uscire dalla recessione che da
anni si abbatte su di noi, la più alta dell’Europa.
Ma più di tutto pesa, e peserà, sulla vita delle persone, sui destini futuri
particolarmente dei giovani e delle donne, e accrescerà ancor di più la mortificazione
cui è stato sottoposto il lavoro nella lunga stagione delle politiche neoliberiste fino alla
definitiva sconfitta che rischia di subire adesso dalla crisi. Il gigantesco spostamento di
reddito avvenuto in pochi decenni dal salario al profitto, la caduta tanto di stabilità del
lavoro come dei diritti e delle tutele del lavoratore, l’emergere prepotente di una
precarietà che produce incertezza di vita, tutto questo ha davvero ridotto lavoro e
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lavoratore a pura merce, tolto loro dignità e futuro. E’ soprattutto attorno al lavoro che
la politica neoliberista ha agito per cambiare alla radice i rapporti sociali in ogni singolo
paese d’Europa e particolarmente, ancora una volta, in Italia, dove la soluzione
“tecnica”, “politicamente neutra” del governo Monti è stata quella, del tutto inefficace e
socialmente dannosa, di voler contrastare la crescente disoccupazione aumentando a
dismisura la precarietà del lavoro (mascherata dalla mera evocazione della
flessibilità), finendo per ridurne i costi a tutto vantaggio dei profitti d’impresa, senza
creare alcuna nuova occupazione. Si è poi proclamata, da tanta parte della scienza
economica di scuola liberista, la fine del lavoro operaio come di quello dipendente,
trascurando e tacendo il fatto che proprio nell’ultimo ventennio la forza lavoro mondiale
è invece pressoché raddoppiata per effetto della spinta dei paesi emergenti. In Asia, in
India, in Cina, soprattutto. E nessuna delle istituzioni finanziarie esistenti si è posta
dinanzi a questo potente fattore sociale di dimensioni globali per governarne le
contraddizioni che portava con sé. Il lavoro, sotto l’egida del modello liberista, alimenta
paradossalmente le nuove diseguaglianze, se dentro la globalizzazione che ogni cosa
unifica e accomuna, bassi salari e basso costo del lavoro in una metà del pianeta
innescano la più brutale competizione con quelli dell’altra metà.
Da una crisi che non è solo economica né solo finanziaria ma di tipo strutturale, crisi di
un intero modello di sviluppo che implode a partire dal fallimento del mito
dell’autoregolamentazione del mercato, si esce soltanto rovesciando il paradigma che
fin qui l’ha sostenuta. Abbiamo assistito, dentro questo paradigma neoliberista, al
paradosso di un sistema economico mondiale che giunto al momento del crollo viene
tirato per i capelli, e salvato con formidabili sostegni alle banche, da quegli stati
nazionali che il medesimo sistema, in tempi di espansione, metteva all’angolo. E
all’altro paradosso, tutto politico, di una sinistra che timida e subalterna resta a lungo
in silenzio mentre la destra arriva ad appropriarsi di un ritorno alle politiche stataliste,
persino keynesiane, mettendo una distanza tra sé e l’ideologia liberista di cui pure si
alimenta.
Un nuovo modello economico e sociale come risposta alla crisi può essere messo
in piedi solo da una grande politica, come è quella che si intreccia con la vita delle
persone, delle comunità, delle istituzioni democratiche e con esse mette in moto la leva
del cambiamento non solo sociale, umano. Un nuovo modello economico e sociale ha
nei beni sociali e nei beni comuni i suoi pilastri costitutivi su cui orientare
innovazione e ricerca scientifica, crescita sostenibile, mantenimento della biodiversità,
riduzione della dipendenza energetica e lotta allo spreco, agli inquinamenti e all’uso
predatorio o semplicemente inefficiente e delle risorse della natura. La natura di “bene
comune” non riguarda la tradizionale distinzione tra lo Stato da una parte e il Mercato
dall’altra, bensì quella tra Stato e ciò che è “pubblico” in un senso più diffuso e
partecipato. E’ un modello che sviluppa lavoro, lavoro nuovo e qualificato, lavoro
creativo verso un altro uso degli spazi urbani, delle relazioni tra le persone e della cura
di sé, dell’età adulta come dell’infanzia, dell’adolescenza e della non autosufficienza,
dei saperi. La logica di questo modello di riconversione, dell’economia, della
produzione, della società, del territorio e del modo di vivere delle persone non dipende
prima di tutto dalla centralità né del profitto né della competizione, ma da una equa
distribuzione dell’insieme delle risorse e dalla cooperazione come metro di
regolazione delle relazioni umane e sociali.
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La conversione ecologica dell’economia guarda alla vita e alle condizioni di
esistenza delle persone, chiede un cambio del modo di pensare che comincia dalla
necessità di “riconoscersi comuni debitori della biosfera”. Essa conduce la politica, e la
sinistra, sulla strada del mutamento dei paradigmi di benessere e di sviluppo che per
lungo tempo ha coltivato. E’ un processo che va verso il territorio poiché il suo scopo è
ridurre al massimo la distanza tra produzione e consumo. Un ruolo determinante in
questo processo di conversione è quello della ricerca e dei saperi attorno a questioni
decisive come l’energia, l’agricoltura, l’alimentazione, la mobilità, il territorio. Una
ricerca ed un sapere orientati su questi temi hanno più efficacia quanto più si
sviluppano a contatto con i protagonisti della conversione: i governi del territorio, le
imprese, le associazioni di cittadini, nel segno di una nuova democrazia partecipativa.
La conversione è il cuore del nostro progetto politico, la risposta propositiva della
critica radicale al liberismo e alle sue politiche. E’ un progetto che si nutre della
fecondità di un pensiero ambientalista capace di produrre elaborazioni e buone
pratiche, come quelle ad esempio che ci sono state trasmesse, nel nostro Paese, da
figure come Alex Langer , Antonio Cederna, Laura Conti. E’ un progetto che già si
delinea nelle azioni di amministrazioni locali virtuose e di imprenditori che fanno
dell’innovazione il centro del proprio lavoro, pur nella difficoltà di accesso al credito che
ne limita la portata. Proprio a partire dalla crisi e dai suoi devastanti effetti si sono
sviluppati nuovi movimenti capaci di pratiche e di relazioni innovative tese al
superamento della contraddizione tra produttore e consumatore e all’affermazione di
una nuova economia solidale. Il progetto di conversione dell’economia chiama altresì in
causa lo sviluppo di una nuova coscienza soggettiva, quella ecologica. Essa ci conduce
a pensare l’ambiente come un ecosistema, una totalità vivente che si organizza. E’ la
coscienza, inedita, della dipendenza della nostra stessa autonomia umana. Con queste
realtà ed esperienze, con questa ricerca, occorre misurarsi sulla strada della
costruzione del progetto di conversione ecologica.
Accanto a ciò occorre una riconversione della politica che assuma il punto di vista
della cura democratica come spazio dell’agire politico, come costruzione di socialità a
partire da una passione per il bene che rivisita il modo in cui i bisogni vengono definiti,
la qualità delle relazioni secondo una reciprocità e un “quotidiano altruismo”. Troppo a
lungo la politica, e le politiche maschili, si sono curate delle dinamiche e dei luoghi del
potere anziché mettere “cura”, nel loro agire, al bene comune e ai beni del mondo. E’
dalle radici che è venuta questa crisi, solo operando alle radici potrà venire
la sua giusta soluzione. E alle radici c’è una questione di eticità sociale e delle
persone, c’è la questione della responsabilità nei comportamenti delle istituzioni come
degli individui di fronte alla natura, all’ambiente, agli altri. L’uscita dalla crisi allora non
può essere confinata nei suoi aspetti puramente tecnici ma va aperta alla domanda
fondamentale dell’uso giusto della libertà, dell’eticità. Ecco perché serve una
conversione. Pensare, organizzare, avviare, governare un modello del tutto nuovo di
riconversione è quello che la politica, la grande politica, deve fare se vuole ridare
umanità, senso e futuro alle nostre vite sospese di oggi.
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La sinistra dentro la crisi è stata a lungo senza parola e ancora adesso non ha trovato
quelle giuste, quelle vere, le parole che rispondono al bisogno primario di definirla. Qui,
nel tumulto del mondo che cambia tutto, fin quasi alla radice della sua stessa civiltà. Ed
è qui che la sinistra deve dire chi è, il punto in cui si trova dentro questo
sconvolgimento che non finisce mai, dire che cosa si lascia dietro e che cosa vede
davanti a sé, il punto preciso da cui rimettersi in cammino. Deve insomma partire da
una critica e da una rivisitazione di se stessa. Con un atto di coraggio, culturale prima
ancora che politico e organizzativo, perché è lì, sulla strada delle idee e dei pensieri
lunghi, che ha iniziato ad abdicare e a perdere il terreno sotto i piedi. Le sue sconfitte,
anche quelle recenti, vengono però da più lontano. I suoi ritardi verso la cognizione
della metamorfosi del mondo precedono la crisi e quando questa quasi d’improvviso
arriva la trova in silenzio, messa come al riparo dai suoi mascheramenti, dalla timidezza
dinanzi al nuovo, quasi da un senso di vergogna di voler stare ben piantata nelle
proprie radici fondative, eguaglianza sociale e libertà degli individui. Una
rimozione profonda della questione sociale, un cedimento colpevole sul fronte delle
libertà e dei diritti. Senza più la forza d’urto di queste due sponde ha perso ogni
elemento di alternatività.
Si è dibattuta tra riformismo e radicalismo scontando la propria subalternità,
culturale e politica. La parabola delle due sinistre le riporta al punto di partenza dopo
che entrambe si sono guardate dinanzi alla grande mobilitazione dei movimenti noglobal
e di quelli delle donne, delle manifestazioni pacifiste ed ecologiste a cavallo tra
vecchio e nuovo secolo. Seattle e poi Genova reclamano questo tema di fondo,
presentandosi come un potenziale maggioritario collocato nel cambiamento, un
cambiamento dal segno, in quel momento, planetario. Il loro universalismo, certo
ancora spurio nelle diverse forme cui dà vita, allude però a tutte le questioni globali poi
esplose con la crisi e pone una domanda di trasformazione generale senza trovare una
offerta, una risposta adeguata al suo livello. Lì si è posizionato l’avversario, con grande
tempestività politica e abilità culturale. Per la sinistra quei movimenti hanno
rappresentato un’occasione mancata nel bisogno che essa aveva di ripensare culture e
politiche, mentre quella stessa spinta apriva nuove strade di alternativa di governo in
tutta l’America Latina.
Il ripiegamento è avvenuto su entrambi i terreni, quello del riformismo e quello del
radicalismo della sinistra. Si è guardato alle “riforme condivise”, specie in campo
economico e sociale, come se la natura dei problemi richiedesse soluzioni tecniche,
neutre, e non fosse invece materia del tutto politica, messa in atto di identità politica
e di alternativa politica insieme. Al riformismo della sinistra è mancata quella
radicalità che presuppone coraggio delle scelte, capacità di stare dentro la complessità,
pratica del conflitto senza il quale ogni riforma si tramuta in uno slittamento verso le
posizioni della destra anziché rappresentare un avanzamento della società.
C’è invece un riformismo che sa darsi una visione critica e radicale della
società, che punta a scelte alternative a quelle dell’avversario e del suo opposto
sistema di valori, un riformismo che dice cosa e chi intende rappresentare dentro il
conflitto e il cambiamento. Ma il riformismo che assume ogni compatibilità data, che fa
propria l’idea della scarsità di risorse senza andare alla radice dell’iniqua e gigantesca
questione redistributiva che si sta giocando dentro la crisi, questo riformismo non darà
alcuna risposta alla crisi sociale che sconvolge il profilo di un paese come il nostro. Si
posizionerà sulla difensiva, come nella partita del welfare dove non riesce ad andare
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più in là di risorse da razionare e servizi da sforbiciare, cedendo alla logica del proprio
avversario di trasferire beni primari come istruzione e salute sul mercato, come se
potessero avere un qualunque valore di scambio al pari di una qualsiasi altra merce.
Un discorso improntato ancora una volta alla retorica delle “riforme condivise” ha finito
per assimilare sempre di più le posizioni di partiti, e di governi, di sinistra e di destra a
quell’idea distorta e rovesciata di riformismo che ha fatto prevalere l’ideologia della
dismissione, della privatizzazione dello spazio pubblico, delle liberalizzazioni
in gran parte delle scelte compiute sotto dettatura dei poteri forti dell’economia. Nel
riformismo della sinistra dentro la crisi c’è stato, oltre a tutto questo, un atteggiamento
elitario che l’ha portata a mettere da parte ogni pratica di ascolto, di contaminazione
e di confronto proprio con quei ceti sociali verso cui le “riforme” venivano indirizzate.
Strati indeboliti dalla crisi, quelli non tutelati, altri non garantiti, strati non visibili ma
diffusi nei meandri di una società che si andava velocemente disarticolando. Questo
tipo di riformismo non ha mai seriamente praticato quella ecologia dei rapporti
sociali indispensabile a tramutare qualsiasi riforma degna di questo nome in una reale
riorganizzazione sociale. Né l’ha fatto la sinistra radicale che nel rinchiudersi
sempre di più in un recinto di minoritarismo e di pura testimonianza ha preso anch’essa
le distanze dalla politica del cambiamento e ha reagito alla crisi nel vano tentativo di
conservare ciò che sempre più si andava perdendo dell’esistente.
Occorre interrogarsi sulla parabola delle due sinistre dentro la crisi, sulle loro culture
politiche, sulla forte insufficienza delle forme di partito che hanno espresso. In Italia
questa doppia parabola si è compiuta nell’arco di tempo dominato dalla destra e dal
berlusconismo. La sinistra ha erroneamente considerato a lungo come anomalia e
come dilettantismo politico ciò che invece stava diventando costruzione egemonica,
messa in campo di strumenti inediti attraverso cui plasmare un nuovo senso comune
e un nuovo blocco sociale pubblico, dettando così l’agenda politica e ancor più la
mentalità di gran parte della società italiana. Illegalismo e sovversivismo delle sue
classi dirigenti sono stati i due ingredienti di base su cui si sono prima preparate e poi
combattute le numerose guerre del ventennio berlusconiano con lo scopo diretto di
riplasmare la natura stessa di un nuovo Stato italiano. La guerra tra politica e
giustizia, quella contro il lavoro e i lavoratori per ridurne i redditi ed eroderne i
diritti, quella contro i giovani e l’accesso al sapere e alla formazione, quella del
controllo diffuso dell’informazione sottomessa al potere politico vincente, la guerra
contro la cultura. La guerra contro il migrante e lo straniero, divenuti oggetto di
rappresentazioni falsate per poter attuare nei loro confronti politiche razziste e
repressive. E la guerra verso le donne, quella più rivelatrice nel disegnare i contorni e
la trama di un potere proteso a forgiare non solo il senso comune delle coscienze,
maschili e femminili, ma persino l’antropologia delle relazioni tra i soggetti.
Qui, su questo terreno vitale della convivenza umana, lo scambio tra sessualità, potere
e denaro è stato elevato a sistema del rapporto tra uomo e donna nella società, nella
vita comune, nelle istituzioni pubbliche. Dinanzi a quel sistema che si andava
corrompendo, snaturando, si è levata la parola femminile, quasi mai quella maschile
trattenuta invece dentro l’ombra opaca della rivalsa o sospesa in un vuoto silenzio.
Eppure qui, nel punto esatto in cui l’uomo si rapporta alla donna sul piano di
un’immagine di sé e dell’altro e di una pratica della relazione umana, qui è una delle
radici della politica da cui la sinistra dovrà ripartire. Dovrà ripartire da come ci si
confronta, donne e uomini, con il degrado di questa politica e di questo spazio pubblico
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e privato, personale e politico, elemento primario per definire il modo in cui si struttura
la nostra vita sociale, come prende forma la convivenza tra i sessi, quale grado di
qualità assuma la stessa democrazia nel nostro paese a partire dalla relazione, quella
tra donne e uomini, che fonda tutte le altre. Per questo occorre del tutto capovolgere,
rovesciare dalla radice la rappresentazione che di questa relazione ne dà la politica di
oggi, quella di un paese a misura maschile in cui torna l’omicidio delle donne. Si tende
a rubricare il femminicidio come un’emergenza da arginare penalmente
racchiudendolo in tal modo dentro il recinto di una questione di sicurezza, senza
andare al fondo di uno snodo che chiama in causa i codici della nostra civiltà,
rimessi fortemente in discussione dall’affermarsi della libertà femminile. E’ invece uno
snodo che richiede la messa in campo di strategie formative, l’investimento verso la
costruzione di quelle mappe cognitive, emotive e sentimentali dei soggetti
nell’età in cui esse si strutturano, la decostruzione culturale dei tanti stereotipi della
modernità.
Il berlusconismo va molto più in là, e va più a fondo, del suo diretto protagonista. E già
oggi, quale che sia l’epilogo, ci consegna un paese e una società italiana sofferente,
attraversata da sentimenti di rabbia e di rassegnazione insieme, di disperazione e di
paura, persino di rancore. Un rancore di vinte solitudini incapaci di farsi riscatto da
praticare dentro comunità condivise e aperte. Sentimenti che tracciano una linea di
frattura tra l’Italia di oggi e una politica che quasi mai incontra quei sentimenti sul
campo delle tante e diverse sofferenze del vivere quotidiano. Un tratto di civiltà offesa,
di dolore gratuito è quello che ogni giorno emerge dalle condizioni di collasso in cui
versano le carceri nel nostro Paese, con migliaia di esistenze concrete frustrate da leggi
ingiuste come quelle sull’immigrazione e sulle droghe leggere, che riportano a reato di
clandestinità il desiderio di speranza di una vita migliore, del viaggio e della
migrazione, e puniscono con la detenzione l’utilizzo anche minimo di sostanze
stupefacenti. Leggi che un paese civile deve abrogare al più presto. La vergogna delle
condizioni in cui versano le nostre carceri, come la presenza dei Centri di
Identificazione ed Espulsione, veri lager, sono il segno di un degrado civile dell’intero
Paese.
L’Italia di oggi è un paese in nero. Trecento miliardi stimati di economia in nero.
Evasioni, pagamenti in nero. Capitali esportati illegalmente in nero. Gran parte dei
rifiuti smaltiti in nero. Le mafie, le cordate delle diverse consorterie. Il potere in nero. Il
declino del paese chiama in causa l’inettitudine delle sue diverse élite e classi dirigenti,
l’assenza di una visione di prospettiva entro cui proiettare il futuro dell’Italia, il suo
ruolo strategico in Europa. Quando le più importanti infrastrutture di base vengono
prima trascurate e poi svendute ai capitali stranieri senza vincoli di alcun tipo, quando
si dismette il patrimonio dei beni pubblici come non ha fatto nessun altro paese
europeo nei grandi comparti in crisi, come per Alitalia, per Autostrade o per l’Ilva, ma
persino in quelli in espansione come l’agroalimentare, e quando si giunge al punto di
radere al suolo il settore delle telecomunicazioni affidandone l’intero mercato italiano
agli operatori stranieri, è il fallimento delle classi dirigenti del paese che viene chiamato
in causa. Il fallimento politico e morale dei governi come di una gran parte di
imprenditorialità, entrambi incapaci di contrastare il declino e guardare all’Italia del
futuro.
Tra le tante crisi del paese, la crisi morale è proprio quella da cui la sinistra del
cambiamento dovrà riprendere il cammino. Non basterà questo o quel successo
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elettorale, per quanto importante, a voltare pagina. Occorrerà capire cosa è realmente
accaduto in questo ventennio in Italia, nella cultura diffusa, nelle forme di coscienza,
nella gerarchia dei valori sociali. Cosa sia realmente stato questo intreccio di liberismo
e di populismo che si è presentato da noi come la variante italiana di una dura
rivoluzione conservatrice. Occorrerà, per mettere in campo la nostra alternativa di
governo, costruire una soggettività che prende le mosse dalle nuove culture politiche,
da uno sguardo d’insieme dei diversi processi in corso. Servirà a questa sinistra
riconquistare quello che nelle sue due perdenti parabole ha messo prima da parte e poi
smarrito, anche come consenso, ma prima di tutto come ascolto, relazione, scambio.
Quel centro non tanto politico ma sociale che è il cuore vero, problema grande e
aperto, della società italiana ridisegnata dalla crisi. I giovani e le donne, le periferie, i
centri urbani, donne e uomini di una società quasi invisibile, sofferente, senza più
rappresentanza politica. I lavoratori della conoscenza, del precariato, gli stranieri che
da noi vivono e lavorano, quei ceti sociali che più sentono crescere la paura di essere
esposti ad una vulnerabilità che da economica diventa esistenziale e sempre meno si
sentono tutelati e rappresentati da appartenenze sociali, da legami istituzionali, dalla
politica in senso largo.
La sfida della sinistra è proprio quella di dare una prospettiva di cambiamento al
dolore sociale che la crisi sta determinando e potrà farlo se il suo nuovo riformismo,
la sua cultura della mediazione e del compromesso saprà incontrasi con la radicalità,
di sguardo, di analisi, di cura, che esige questo tempo nuovo che si apre. Radicalità di
pensiero e di proposta, quell’andare verso la radice delle cose là dove si incontrano gli
esseri sociali. Radicalità è quella politica dell’ascolto, ad esempio, dei tanti
sommovimenti di una società giunta al limite di un arretramento delle condizioni di vita,
prima ancora che economico. Non è in ogni caso un partire dal vuoto. La politica
come passione di conoscenza, costruzione di comunità, trasformazione del
reale, c’è già in una molteplicità di esperienze giovanili, femminili, del volontariato,
dei soggetti sociali locali e globali che animano le lotte per i diritti, nelle professioni e in
gran parte del mondo del lavoro, operaio, artigiano, della conoscenza e della
formazione, nelle azioni di cura. Sono nuove forma di partecipazione politica
“sotterranea” che trascendono le appartenenze tradizionali e che ritroviamo nel popolo
del referendum per l’acqua pubblica come nelle azioni di sostegno alla pace in Siria. E
se stentiamo ad incontrarla, questa politica nuova, nei partiti attualmente esistenti è
proprio perché essi sono fin qui venuti meno tanto al compito di organizzare la
partecipazione democratica quanto a quello di selezionare una classe dirigente
capace di pensare e praticare l’incontro proprio con questo cuore sociale del paese.
La sinistra esiste quando incarna una funzione che sia utile alla vita delle singole
persone. E’ a partire di qui che ha senso il suo misurarsi con la sfida del governo del
Paese. La politica è il suo fine, i partiti sono uno strumento e valgono se sanno
interpretare quella funzione in maniera politica. Oggi la funzione della sinistra deve
avere al tempo stesso una dimensione italiana ed europea. Dentro la partita tutta
aperta dello sbocco della crisi, la sua sfida è il governo, anche quando si trovi
all’opposizione parlamentare, poiché del governare i processi del tempo presente la
sinistra deve possedere la cultura e il coraggio di praticarla. E’ una cultura che non può
contemperare la logica perdente dei “due tempi”, quello di adesso per risanare e quello
che verrà, se mai verrà, per cambiare. Perché “un viaggio di mille miglia comincia
sempre da un primo passo” e questo ci dice che il tempo della politica è sempre
scandito dalla coerenza dei fatti che essa produce. La coerenza che quello che
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dobbiamo e possiamo fare oggi, fosse pure un primo passo, abbia a che vedere già
qui, già adesso, con il cambiamento che richiede di percorrere mille miglia ancora.
L’Italia ha bisogno di un governo, un governo del cambiamento e di
trasformazione, un governo che la porti su un’altra strada dal vicolo cieco in cui si
trova da lungo tempo. C’ è un Paese che dall’inizio della crisi vede fabbriche chiudere
ogni giorno, lavoratori messi sul lastrico in qualsiasi settore e comparto produttivo,
giovani costretti all’inattività o alla precarietà dopo aver visto indebolito o negato il loro
diritto ad uno studio e a una formazione divenuti sempre più costosi e dequalificati,
salari e pensioni erosi al punto di piombare sotto il livello di sussistenza. Un Paese che
si chiede quale atto, quale idea, quale prospettiva il suo governo stia praticando per
uscirne fuori. Quale politica per il lavoro e per l’occupazione, per il sapere, per il
territorio, per lo sviluppo del suo Mezzogiorno, quale politica sociale per invertire
finalmente la rotta delle povertà e delle diseguaglianze, due macchie di cui deteniamo il
primato assoluto ormai in Europa. Quale politica per l’immigrazione e l’accoglienza,
che metta fine alle tragedie del mare e costruisca un’Italia ospitale e integrata. Quale
politica industriale, tema cruciale per decidere che peso e che segno avrà lo
sviluppo del Paese nei prossimi decenni, ma che da tempo non è sui tavoli di nessun
governo. La vicenda dell’Ilva è il caleidoscopio sociale e politico che rifrange l’insieme
delle contraddizioni, mettendo in luce l’inettitudine di una parte dell’imprenditorialità
italiana, lo snaturamento di gerarchie di valori fondanti la vita stessa quando si vuole
contrapporre il diritto alla salute a quello del lavoro, quando invece lavoro e
salute insieme vengono lì ferite a morte dal profitto come unico metro di misura.
A chi se non alla politica nazionale, al suo governo, tocca il compito di intervenire
separando finalmente la proprietà dell’azienda dalla sua produzione così essenziale per
le sorti del Paese?
Un Paese che non ha, non può avere memoria di una sola di queste scelte
semplicemente perché nessuno dei differenti governi che si sono succeduti l’ha mai
compiuta. Non il governo Berlusconi che con l’oscurantismo di Tremonti e del suo
credo secondo cui “con la cultura non si mangia” mette al tappeto uno straordinario
patrimonio lì pronto ad essere leva di uno sviluppo maturo per contrastare la
recessione. Non il governo Monti che con la tecnica accademica di Fornero inventa
figure sociali mai fin qui conosciute – gli esodati – e li pone nel dramma esistenziale di
vite quotidianamente sospese. Non il governo Letta, che esordisce sulla scena con il
suo ministro Alfano intento ad espellere una madre e una bambina straniera contro
ogni norma internazionale vigente pur di compiacere un regime autoritario con cui
tenere aperto il capitolo degli affari. L’Italia ha bisogno urgente di un governo che
guardi a lei, al suo dolore sociale e alle sue virtù umiliate, con la forza e con il coraggio
di aprire immediatamente una strada nuova. Quelle fin qui tentate sono fallite, frutto
della medesima “insania che consiste nel fare la stessa cosa ripetutamente, ma
aspettandosi risultati differenti”. Per ottenere risultati differenti dobbiamo fare cose
differenti e occorre un governo differente. La prima cosa differente che una
sinistra al governo dovrà fare, per l’Italia e per l’Europa di cui è parte
fondamentale, è una riforma per cambiare le attuali regole della finanza. Non
esiste nessuna sinistra possibile senza una radicale riforma del capitalismo
finanziarizzato. Se non si parte prima di tutto da qui, si lavorerà sempre ai margini
della crisi, senza mai toccare il cuore del problema. Da qui bisogna partire,
dall’introdurre una tassa sulle transazioni finanziarie; dal separare le banche di
risparmio dalle banche di affari; dal mettere il freno alla speculazione finanziaria; dal
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prevedere e applicare sanzioni a chi spaccia titoli spazzatura con rating positivi fasulli.
E dal riportare dentro il lessico politico una parola – la parola “patrimoniale” – oggi
bandita in Italia a differenza che negli altri paesi d’Europa dove costituisce viceversa il
metro delle misure più elementari di equità sociale. Sono proposte ampiamente note,
dibattute da tempo nelle varie sedi internazionale, reclamate da diverse parti. Ma
nessun governo, né in Europa né in America o altrove, le ha mai tradotte in azione. Se
non si parte prima di tutto da qui, si continuerà a girare a vuoto attorno alla crisi per
tornare al punto di prima come in un tragico e beffardo gioco dell’oca, ed essa si
riproporrà a breve distanza di tempo esattamente come prima, già ne abbiamo i
segnali.
E insieme alla riforma della finanza da portare in Europa, la sinistra al governo
dovrà presidiare allo scopo di attuarla la Costituzione Repubblicana. Essa è
già da tempo al centro del dibattito pubblico, per essere cambiata, ridotta, emendata,
riscritta. Saggi, tecnici, esperti presunti ruotano attorno ad essa per smontare pezzi,
aprire varchi, introdurre premierati e presidenzialismi. Hanno in mente, questo in realtà
stanno tentando, un percorso controriformatore della nostra carta costituzionale.
Nessuno di costoro ha levato una parola a commento del recente rapporto della più
grande banca esistente al mondo, la J.P. Morgan, che considera le Costituzioni
democratiche di diversi paesi, a cominciare dalla nostra, un ostacolo all’espansione
globale del capitalismo per il solo fatto di sancire come inviolabili i fondamentali principi
della tutela del lavoro e dei diritti acquisiti della persona. Occuparsi della
Costituzione Repubblicana, per la sinistra al governo, vuol dire considerarla
come un programma politico da realizzare, tanto nella sua parte valoriale dei
principi fondativi del Paese quanto nella parte economica e sociale. La
Costituzione disegna la democrazia di un paese. Essa non è divisibile tra democrazia
praticata nella società e democrazia sospesa o ritagliata su immagine e misura del
capitale nella fabbrica, come invece viene concepita dall’attuale direzione della Fiat. E’
questa una concezione che fa della democrazia uno strumento adoperato allo scopo di
rovesciare il diritto e rinchiudere il lavoro in un recinto di puro asservimento. Cambiare
le regole della finanza, attuare la Costituzione sono i due punti di partenza di un
percorso che porta, dopo un ventennio, la sinistra ad archiviare il berlusconismo come
cultura politica, come modello sociale, come fenomeno dell’immaginario e di una
cultura diffusa del senso comune. Significa, in sostanza, definire la sinistra in Italia
come campo alternativo a quello della destra.
Il governo delle larghe intese è frutto tanto della paura del Partito Democratico di
andare incontro al nuovo che viene dalla società italiana pur dentro un voto politico
così controverso, come del tentativo di mettere in campo un progetto politico di
risposta alla crisi guardando alla forma della grande coalizione con la destra politica
come scenario di prospettiva, non solo di emergenza. La sua nascita sancisce una
lesione del vincolo di fiducia con grande parte del proprio elettorato, un rovesciamento
del mandato popolare e ripropone il mito della governabilità insieme a quello
dell’emergenza perpetua, sostituisce l’orizzonte del cambiamento che, a partire dalle
primarie, si stava facendo faticosamente strada. I contenuti della sua agenda politica, i
pochi e controversi fatti fin qui prodotti, l’inerzia dei continui rinvii, ne segnano la
natura restauratrice, a cui si aggiunge il condizionamento pesante e costante del
destino politico e personale di Berlusconi. E la stessa decisione politica, quando è
assunta come nella vicenda dell’ IMU per sottostare al ricatto programmatico e politico
della destra, rivela in pieno la sua logica socialmente e moralmente iniqua di mettere
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sul medesimo piano chi arriva a possedere una casa al prezzo dei sacrifici di una vita
da chi ostenta ricchezze patrimoniali. Nei fatti, il governo delle larghe intese porta
l’intero centrosinistra più che ad un arretramento, verso la sua implosione.
Stretto nella paralisi di opzioni alternative, almeno guardando ai programmi di governo
con cui i due principali partiti che lo sostengono si sono presentati al voto, fa del rinvio
dei problemi la propria filosofia di sopravvivenza politica. Nessuna scelta strutturale è
fin qui venuta né potrà venire dal governo delle larghe intese proprio a causa della
natura stessa della sua origine.
Il Partito Democratico diventa ancor di più un problema politico, italiano ed europeo, di
primaria grandezza. Il centrosinistra di cui si era faticosamente avviata la tessitura
con le primarie e il programma della coalizione Italia Bene Comune, è ora un campo
interamente da costruire, sul piano della cultura di governo, della grandi scelte
politiche, della sua forma organizzata. In questo quadro il Partito Democratico non è il
nostro destino predeterminato. La costruzione difficile, conflittuale, di un rapporto tra
forze diverse è possibile soltanto a partire da una scelta di fondo che ha come metro di
misura e di relazione la reale prospettiva di cambiamento del paese e di
alternativa politica. Noi ci sentiamo impegnati a sviluppare verso il Partito
Democratico, i suoi gruppi dirigenti, il suo elettorato, ogni forma di confronto che si
proponga come fine la costruzione di una nuova coalizione, alternativa nei temi
dell’agenda politica del paese a quella della destra.
Speculare e simmetrico all’incertezza e alla paura verso il nuovo che ha portato il
Partito Democratico a compiere passi all’indietro, è risultato, sino ad ora, il
comportamento politico del Movimento 5 Stelle che dopo aver raccolto il bisogno di
voltare pagina di tanta parte dell’elettorato sceglie la contrapposizione apocalittica che
lo fa essere chiuso ad ogni alleanza per il cambiamento.
Noi, Sinistra Ecologia Libertà, sentiamo forte l’urgenza di costruire per l’Italia, e
insieme per il peso che essa può esercitare in Europa, un nuovo punto di riferimento:
la sinistra del futuro. Oggi, come nel nostro primo congresso di tre anni fa, questa è
la partita vera da riaprire per mettere in campo un’alternativa alla destra e al ciclo del
berlusconismo. In questo arco di tempo abbiamo iniziato con passione e convinzione
un cammino forti di un’idea che proprio il punto di precipizio in cui siamo giunti, rende
urgente, necessaria. L’idea che le nostre società, e quella italiana più di altre, possono
costruire il loro nuovo equilibrio solo a partire dai valori della giustizia sociale e delle
libertà e i diritti delle persone. Qui è il cuore antico e nuovo della sinistra. Insieme
all’altro valore fondativo di una sinistra del futuro: quello dell’ecologia come salto di
civiltà per uno sviluppo che non sia mai più dissipazione dei beni finiti, né devastazione
degli ecosistemi ma dia senso nuovo al vivere associato, alla relazione tra la specie
umana e le altre specie, da quelle animali intesi come esseri senzienti, a tutto ciò
che è inerte ma prezioso per noi in quanto deposito di memoria e di cultura.
E’ un cammino che si compie su di un terreno che addensa le tracce di pesanti
sconfitte e dove ancora ingombrano le macerie del passato. Qualcosa che richiede ad
ogni passo la paziente ricostruzione di culture politiche, di forme dell’organizzazione, di
sistemi di alleanze. Ed è un percorso che non possiamo né intendiamo fare da
soli, chiusi nel nostro perimetro di partito che proclama certezze e autosufficienze o
sventola bandierine. Avvertiamo il forte limite della nostra pratica politica, l’insufficienza
delle nostre procedure di vita democratica interna e di formazione dei gruppi dirigenti,
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della qualità ed efficacia delle nostre iniziative. La qualità della politica, la sua radicale
riforma, ci riguarda direttamente. Senza andare al cuore di questo problema non potrà
nascere nessuna sinistra che sia di alternativa e di cambiamento. La questione della
soggettività politica della sinistra è una questione dirimente: per il pensiero, per il
fare, per le forme della politica, per le pratiche. Occorre su questo un discorso di verità
su di noi, sul divario che si allarga tra ciò che vogliamo essere e ciò che siamo nel
modo attuale di fare politica. E’ un discorso di verità che richiede analisi, conoscenza,
lettura delle forme e delle pratiche, invenzione e creazione di un nuovo agire politico.
Un discorso di verità sulle forme della politica e su quelle della rappresentanza, senza
le quali non è possibile alcun discorso sulla qualità della nostra democrazia, mette in
primo piano non solo l’insufficienza della forma-partito come strumento del fare politica
oggi, ma pone al centro della nostra riflessione e della nostra ricerca il problema
profondo e irrisolto di come la crisi della sinistra abbia modificato ognuno di noi
nell’esprimere e rappresentare la politica.
Vogliamo allora stare in un campo aperto, connettere ed intercettare in questa
nostra impresa tutto ciò che si esprime dentro il cuore pulsante di una società alla
ricerca, nelle sue più diverse forme di aggregazione, di una alternativa all’agonia
politica di un paese umiliato. Ad associazioni, movimenti, singole soggettività e
personalità espressioni di culture critiche dello stato di cose presente e impegnate
come noi in questa impresa manifestiamo la volontà e la pratica dell’ascolto, del
confronto, dell’incontro. Della contaminazione. Non abbiamo sovranità da presidiare e
da difendere, perché questa ricerca, questa costruzione non dovrà mettere insieme ceti
politici custodi gelosi del proprio circoscritto potere, ma idee, culture, esperienze,
pratiche politiche nuove. Noi mettiamo a disposizione le nostre per dare senso a
questo progetto. E’ così che potrà sorgere quella politica buona che oggi manca in
questo nostro Paese. Essa potrà esistere se insieme sapremo organizzare luoghi, spazi
alternativi alla deriva individualistica che oggi ci segmenta e ci frantuma in quel muto
distacco dove il cittadino sempre più si sente suddito chiuso nel proprio rassegnato
rancore. L’approdo di una sinistra che si costruisce esplorando un campo aperto e largo
dentro il cuore pulsante della società è un nuovo soggetto politico per l’Italia.
Perché non esiste società strutturata, non esiste democrazia vitale che non si alimenti
della contesa trasparente e vivificante di partiti e soggetti politici. Essi sono - così recita
la nostra Costituzione - la democrazia che si organizza. Va rimesso in gioco il senso
profondo dell’articolo 49 della Costituzione sulla funzione dei partiti politici in Italia e
sull’idea di democrazia rappresentativa che esso delinea come campo di tensione tra lo
Stato e la società.
Oggi, e da tempo, non è così. Oggi definiamo “partiti” meri agglomerati di potere,
strutture personali, cordate di ceti politici o costruzioni di marketing aziendalistico volti
ad occupare e a svuotare istituzioni pubbliche, settori vitali dello Stato, oltre che a
conoscere la società di oggi dalla lettura settimanale dei sondaggi anziché dal praticare
sul campo le problematiche che essa esprime. Sono partiti senza più società, come
è stato detto. Espressioni velleitarie di una politica chiusa in sé stessa, distante
dall’intreccio con la vita reale dei cittadini che da essa sempre meno si sentono
rappresentati. Ma quando la politica ha un senso, quando ha un fine, quando
interpreta la coscienza civile e morale di un popolo, lo strumento attraverso cui essa si
esprime e si consolida è il soggetto politico. E soggetti politici capaci di organizzare la
rappresentanza e di selezionare una classe dirigente, portatori di visioni e di valori tra
di loro alternativi dentro una competizione democratica, rappresentano il lievito di una
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società che torna ad essere dinamica, protesa verso un futuro di comunità aperta. Chi
rinuncia a considerare il soggetto politico uno snodo indispensabile alla democrazia
di un paese, in nome di una esclusiva democrazia di rete senza più corpi intermedi
come partiti e sindacati, dove la politica si gioca soltanto nel rapporto fiduciario e
subalterno tra il capo e il suo popolo, rinuncia alla strada che conduce ad una
democrazia matura per intraprendere un sentiero, già tristemente praticato nella storia
europea e italiana, che può avere come sbocco un esito autoritario. La stessa
democrazia diretta non può essere contrapposta a quella rappresentativa, poiché essa
è un valore che esprime complessità, forme permanenti e costruttive di partecipazione,
protagonismo e dialettica dei diversi soggetti, in un rapporto fecondo con le diverse
forze in campo.
La sinistra per cui lavoriamo è quella che ridà linfa e vigore a tutta la democrazia
italiana, non solo a quella della propria parte. Ciò vuol dire per noi auspicare e favorire,
dentro la riorganizzazione di un nuovo sistema politico del Paese, l’approdo
democratico della stessa destra politica nel segno del riconoscimento pieno e reciproco
dei valori costituzionali come unico fondamento di una contesa politica aperta per
l’alternativa al governo dell’Italia. Non esistono pacificazioni nazionali da compiere, ma
alternative politiche da costruire attraverso l’opzione di valori, di programmi, di alleanze
sottoposte alla decisione popolare sulla base di regole democratiche, a partire da una
nuova legge elettorale che consenta effettivamente in modo chiaro di esprimerle.
Le elezioni per il prossimo Parlamento Europeo risulteranno uno spartiacque nel
difficile processo di costruzione dell’Europa politica ed assumeranno tutti i caratteri di
una nuova fase costituente del nostro continente. Abbiamo il compito, urgente, di
costruire una proposta politica che punti al miglioramento delle condizioni di vita delle
persone, se vogliamo sconfiggere riflussi identitari, xenofobi, antieuropei che si
alimentano della disperazione e della precarietà nella quale sono precipitati milioni di
donne e di uomini in ogni parte d’Europa con le politiche di austerità e di taglio delle
spese sociali. Occorre un progetto che veda l’Europa come il luogo di una grande e
nuova opportunità per un mondo più giusto e aperto alla vita e al futuro. Un progetto
che riprenda il valore cosmopolita e federalista dell’Europa pensata da Altiero
Spinelli. Le emergenze sociali, economiche e ambientali che l’Europa ha di fronte a sé
non potranno essere affrontate e risolte dentro l’attuale assetto istituzionale e delle sue
pratiche decisionali intergovernative. Occorre viceversa puntare ad un autentico
processo costituente dell’Europa che inizia da una revisione degli attuali Trattati e
dalla costruzione dell’Europa politica. Oggi l’Unione Europea non parla con un’unica
voce, ha un parlamento ma non un governo. La strada della nuova Europa è quella di
una Unione di tipo federale, rispettosa delle diversità esistenti e dotata di istituzioni
economiche, finanziarie e fiscali realmente comuni e democraticamente controllate. Al
Fiscal Compact con il quale l’Europa di oggi ha imposto ai suoi stati membri la logica
del puro rigore e del pareggio di bilancio, contrapponiamo l’Europa del Social
Compact, un patto sociale fondato su un piano economico condiviso, su politiche di
occupazione tra loro coordinate ed eque, sull’estensione dei diritti, sull’accesso ai
servizi pubblici essenziali, sul reddito minimo garantito. Le risorse finanziarie necessarie
si baseranno su un bilancio europeo che preveda politiche fiscali fondate sulla
tassazione delle rendite finanziarie, sulla fiscalità green, sul sostegno a start-up per
imprese innovative e imprenditorialità giovanile e femminile. Un progetto per l’Europa
accogliente, ecologica, solidale non può tuttavia limitarsi alle riforme dell’assetto
istituzionale. Esso deve trovare forza ed ispirazione dal diretto protagonismo delle
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sue cittadine e dei suoi cittadini, elemento vitale per un autentico processo
costituente che restituisca sovranità alle persone, ai loro bisogni e diritti. Europa come
nuovo spazio pubblico di promozione e di tutela dei beni comuni, dell’acqua e dell’aria,
del cibo, della salute, dei saperi, al di fuori di ogni mercificazione. Un’Europa che
abbandoni la dipendenza dai combustibili fossili per sostenere innovazione tecnologica
e ricerca, fonti energetiche rinnovabili. Un green new deal europeo incentrato su equità
e giustizia ambientale e sull’inalienabilità dei beni comuni è la strada di questa nuova
Europa.
In Europa, il luogo di una nuova sinistra italiana è il Partito del Socialismo
Europeo, inteso come il campo largo e plurale che contiene e rappresenta nella
propria politica continentale l’alternativa al polo conservatore. Dentro questo
campo la nuova sinistra italiana può e deve portare il carico delle culture critiche che
l’attraversano e la compongono ed essere punto di raccordo con altre esperienze
politiche, come i Verdi e la Sinistra Europea, aperte a definire un comune spazio
europeo largo che abbia come fine la costruzione di nuove strutture comunitarie nel
segno del cambiamento e della trasformazione. Intendiamo far parte di questo campo
prescindendo da ogni approdo ideologico, ma per contribuire ad allargarlo e a
modificarlo affinché nessun solco sia tracciato verso quelle identità ed esperienze
proprie di altre culture della sinistra che si muovono in senso progressista, ecologista,
europeista. La famiglia del socialismo europeo dovrà misurare la sua effettiva
alternatività al polo conservatore tanto sul nodo pace e guerra quanto sulla via
d’uscita dalla crisi. La politica fin qui espressa dal governo socialista francese sulla
situazione siriana è andata invece nella direzione opposta. Né la politica delle “grosse
coalizioni” va oltre le compatibilità date, e subite, collocandosi su un’altra strada
rispetto alla messa in atto di politiche economiche, sociali, ambientali alternative al
quadro esistente. Ecco perché riteniamo che quel campo debba risultare il luogo
dell’incontro di culture e di pratiche politiche differenti, non riconducibili all’unica
tradizione socialista. Vanno superate vecchie appartenenze oggi accomunate da
sconfitte e da contraddizioni paralizzanti.
Una sinistra che guardi al futuro è, già oggi, il luogo che si batte per una cultura dei
diritti umani, dei diritti civili e di libertà così fragile e incerta oggi nel nostro
paese. Il diritto alla propria identità sessuale, il diritto dei migranti, delle seconde
generazioni, quello dei rom. Il diritto dei bimbi nati da genitori stranieri di ottenere la
cittadinanza italiana. Questa è già l’Italia del futuro, un paese plurietnico che considera
il valore e la pratica di ognuno di questi diritti come il segno di una società vitale,
dialogante, aperta all’altro. Per questo non è più accettabile che l’Italia sia tenuta, da
parte di una politica miope e distante da chi pure vorrebbe rappresentare, ai margini
dell’Europa che su questo terreno ha compiuto passi importanti in avanti. Il diritto
fondamentale attorno a cui va costruita la sinistra è quello delle giovani generazioni
alla vita, al bisogno di futuro, alla possibilità di pensare e realizzare il proprio progetto
esistenziale con autonomia e libertà, senza essere costretti ad emigrare dal proprio
paese per cercare altrove opportunità che oggi qui sono negate. Proprio l’acuirsi della
crisi economica motiva per noi l’intensità di una battaglia per i diritti, esposti mai come
in questa fase al rischio di un dissolvimento e di un arretramento di portata storica.
Questo nostro cammino, né facile né breve, comincia già oggi e il congresso che ci
apprestiamo a svolgere costituirà anche per noi una prova dove praticare un confronto,
costruire un percorso, indicare una prospettiva, operare quell’apertura e quella
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connessione con le tante potenzialità che la sinistra in Italia contiene e che
costituiscono, nella ricchezza delle differenze e delle molteplicità, una speranza per il
futuro su cui occorre fare leva. Esprimiamo oggi una netta opposizione ad un
governo che consideriamo innaturale e del tutto insufficiente ai problemi che il nostro
Paese ha davanti a sé. La pratichiamo nei luoghi della società che subiscono
l’amputazione della crisi, mettendo in campo una cultura di governo, di proposta, di
alternativa come quella che dall’inizio della legislatura esercitano i nostri gruppi
parlamentari di Camera e Senato. Per rendere la nostra opposizione più efficace,
per costruire ascolto, confronto e condivisione di una agenda nuova delle priorità
dell’Italia e dell’Europa abbiamo dato vita ad una campagna – La strada giusta – che
esprime attraverso le priorità che proponiamo il senso di una sinistra che si misura con
le sfide aperte. Una campagna che si svilupperà sino alla scadenza delle elezioni
europee indicando misure alternative nelle politiche economiche e fiscali, sociali e dei
saperi.
Il nostro obiettivo politico è far cadere al più presto un governo che galleggia sui
problemi drammatici del paese e metterci al lavoro per aprire un’altra strada. La
vogliamo ricercare, anche qui, non da soli ma parlando al Partito Democratico affinché
compia la scelta di un’alternativa alla coabitazione innaturale con la destra;
all’elettorato del Movimento 5 Stelle che sente tutti i limiti e le insufficienze di un voto
innovativo proteso al cambiamento e che ora corre il rischio, a pochi mesi
dall’esperienza parlamentare, di finire sterilizzato nella scelta del proprio isolamento;
alle donne e agli uomini, ai giovani delusi e rassegnati che hanno rinunciato persino
all’esercizio del voto dinanzi a una politica percepita a lungo come assente dai loro
bisogni. Consideriamo di fondamentale importanza il sentimento popolare che cresce,
al di là dei diversi soggetti organizzati, in nome della difesa e dell’attuazione della
Costituzione e che investe parti ormai rilevanti della società. Personalità, associazioni,
movimenti che avvertono il bisogno di cambiare il Paese a partire dai valori e dai
principi costituzionali, per mettere la democrazia, i diritti, la lotta alle diseguaglianze, al
centro di un nuovo impegno comune. Non è in alcun modo una battaglia puramente
difensiva o nostalgica della Carta. Essa ha invece un senso nuovo nel considerare la
nostra Carta Costituzionale come un documento fondativo che assomma per intero
tanto il valore della civiltà liberale quanto il suo andare oltre, ponendo su un terreno
più avanzato proprio quei nodi sociali ed economici oggi messi in crisi dal trentennio
delle politiche liberiste.
Il popolo dell’alternativa è già una realtà in movimento. E’ il popolo che ha individuato
la natura sociale del berlusconismo come disintegrazione di ogni spazio pubblico e che
si è organizzato attorno alle battaglie di difesa e custodia dei beni comuni come l’acqua
pubblica. E’ il popolo che considera il lavoro come cartina al tornasole della qualità
della convivenza e della democrazia, che vive le diversità come un valore in sé e ha
come orizzonte dei propri comportamenti e delle proprie pratiche la fine del rapporto
gerarchico e “militare” del genere maschile verso il genere femminile, che affronta la
grandiosa questione della precarietà sul versante che la può sconfiggere alla radice,
quello della modifica delle forme produttive e delle relazioni industriali. Solo andando al
cuore della critica culturale del berlusconismo che in questi vent’anni ha plasmato il
senso comune del Paese potrà emergere la possibilità di una nuova egemonia, di una
diversa idea di società nella quale sia finalmente percepibile la reale, alternativa
differenza tra destra e sinistra in Italia.
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Aprire dunque un’altra strada. Di questo discuteremo, su questo ci confronteremo nel
nostro prossimo congresso. L’abbiamo definito, pensato, strutturato come un
incontro politico aperto e vogliamo che esso diventi un luogo di pratiche politiche
distanti da vecchi e inconcludenti politicismi per far maturare un’esperienza del tutto
nuova. Ci sarà indispensabile, per farlo, insieme alla nostra volontà e determinazione,
la disponibilità di quelle tante soggettività, personalità, con cui in questo tempo
abbiamo scambiato l’ascolto e il confronto, le culture e le esperienze, trovando e
costruendo insieme sintonie e percorsi per aprire una possibilità, un’alternativa, una
speranza. Il congresso è loro allo stesso modo di come è nostro, per spostare insieme
più avanti la prospettiva di un cambiamento del nostro Paese.
Sentiamo di stare dentro un grande e sconvolgente mutamento che pare non avere
fine, pare non trovare un punto di assestamento, di equilibrio. Esso tocca ogni aspetto
delle nostre vite, ovunque e di chiunque. E di tutte le crisi che compongono “la grande
crisi”, forse la crisi del futuro, di un futuro che rompe ogni filo con il presente, è la più
complessa delle crisi con cui oggi ci misuriamo. E “l’eterno presente” in cui siamo
precipitati genera disperazione e angoscia, paura e precarietà, dominato com’è dalle
forme di un’economia che non solo nelle sue pratiche ma ancor prima nel suo pensiero
allontana da sé passioni e speranze umane, tutto ciò che non è calcolabile nei termini
esclusivi del profitto. Ne usciamo se la politica che abbiamo in mente si accosta ad un
nuovo pensiero. Tutte le diverse crisi che abbiamo qui richiamato sono altrettante crisi
di pensiero, crisi dell’educazione contemporanea di leggere e guardare il mondo. La
nostra conoscenza è ormai sterminata, si nutre di mezzi e di tecnologie mai conosciute
fin qui, eppure non giunge ancora al punto di essere conoscenza dei problemi globali,
fondamentali, fino al paradosso di un mondo che implode di informazioni a cui non
corrisponde una reale conoscenza della trama che lo spieghi nella sua realtà. Abbiamo
invece bisogno di pensare la politica in modo globale, planetario, e abbiamo bisogno di
un pensiero che coltiva la reciprocità di relazione tra le diverse parti e il tutto. Qui è il
senso del nuovo pensiero ecologico, di una conversione che pensa insieme economia
ed ecologia, diversità culturali e patrimoni biologici. Anche la nuova politica è quella
che pensa a partire dalla complessità, che capovolge e supera ogni concezione
antropocentrica, l’idea dell’uomo quale unico soggetto nel mondo degli oggetti da
usare, consumare, distruggere. Da un nuovo pensiero e da una nuova politica potrà
scaturire quel che oggi completamente manca al nostro modo di affrontare la crisi, le
crisi: la coscienza di un destino comune del futuro, di ciò che ci attende e di ciò che
saremo. La politica può ricomporre il tempo oggi frammentato, disgiunto. E nel tempo
ricomposto il destino comune di futuro riguarda insieme il passato e il presente della
nostra storia, di ogni nostra storia. La speranza di costruire questa politica dipende da
noi, perché per ognuno di noi vale il medesimo pensiero, il medesimo impegno: “…
volgiti e guarda il mondo come è divenuto, poni mente a che cosa questo
tempo ti richiede”. La sinistra del futuro parte già adesso da qui.
Nichi Vendola
Settembre 2013

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